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Lectio divina della XII Domenica del Tempo ordinario - Anno A

Inserita il: 18/06/2020

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Mt 10,26-33
“Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!”

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: 26«Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. 27Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! 32Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

CONTESTO E TESTO
La liturgia di questa domenica ci aiuta a riprendere in mano la nostra vita e a considerare come la “missione” sia la nostra stessa vita, la testimonianza che non si tratta solo di “dire” ma di annunciare il Vangelo con la bellezza della nostra vita in Cristo.
 
Il Vangelo di Matteo, 10,26-33, che continua a narrarci il discorso missionario di Gesù, mette in evidenza la realtà che per i discepoli si tratta di rischiare molto per Lui e per il suo messaggio. Ma il Signore è al loro fianco e chiede di essere riconosciuto attraverso la loro stessa vita. La missione infatti non è una strategia da imparare ma una comunione da vivere con Cristo e tra di noi, nella gratuità dell’amore siamo amati dal Padre, che non lascia cadere a terra nemmeno un passerotto e tanto più custodirà i suoi figli: non abbiate paura, voi valete più di molti passeri!

APPROFONDIMENTO DEL TESTO
Non abbiate paura dunque di coloro che vi assimilano a Belzebul e quindi vi perseguitano e vi consegnano alla morte. Non vi scoraggiate quando questi saranno anche i vostri familiari. Infatti poiché il discepolo diviene come il maestro, ne condivide la sorte. 
 
Ma le accuse infamanti e le persecuzioni non hanno il potere di soffocare l’Evangelo che anzi da nascosto quale ora è sarà svelato e da segreto sarà conosciuto. Esso è ora nascosto come un tesoro (cfr. 13,44) e come lievito nella pasta è coperto. Ma per la sua forza, intrinseca comunicatagli dal Padre, esso si rivelerà e quindi sarà conosciuto. Ora è coperto ed è nascosto perché la sua rivelazione, che è conoscenza, è data ai credenti, cioè ai piccoli (cfr. 11,25) che sono i suoi discepoli, ai quali il mistero è rivelato non dalla carne e dal sangue ma dal Padre celeste (cfr. 16,17). 
 
L’Evangelo pertanto rimane velato per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso evangelo di Cristo che è immagine di Dio (2 Cor 4,3-4). Ma esso non può restare velato e non può restare nascosto. La predicazione apostolica è pertanto il luogo dove il Padre ha iniziato a rivelare il suo Evangelo fino alla sua piena manifestazione nel giorno del giudizio, quando Dio giudicherà le realtà nascoste degli uomini secondo l’evangelo mediante Cristo Gesù (Rm 2,16). 
 
Nel frattempo la rivelazione attuale, proporzionata alla fede, opera in coloro che ascoltano l’accettazione o il rifiuto e quindi anche la persecuzione di coloro che annunciano. Questa persecuzione rafforza l’Evangelo e lo rende noto, come rende anche nota l’autenticità di coloro che sono inviati. Infatti il timbro della loro autenticità è non venir meno nelle prove, perché «come le stelle risplendono nella notte e si nascondono durante il giorno: così è la vera virtù che spesso non appare nelle situazioni favorevoli ma risplende in quelle avverse» (Bernardo).
 
La contrapposizione mette in risalto un momento intimo con il Maestro dove essi apprendono il suo insegnamento, trasmesso alle loro orecchie, e un momento pubblico dove essi devono annunciare con franchezza e apertamente, senza timore alcuno, quanto hanno imparato. 
 
Per paura dei giudei i discepoli se ne stanno chiusi in casa; ripieni dello Spirito essi escono e annunciano l’Evangelo apertamente come ci insegnano gli Atti. Anche questo è un avvertimento a non temere.
 
La parola del Cristo è la stessa che è risuonata ai profeti per incoraggiarli nella loro missione, come, ad esempio, a Ezechiele: Come diamante, più dura della selce, ho reso la tua fronte. Non li temere, non impaurirti davanti a loro; sono una genia di ribelli (Ez 3,9). Questa parola toglie il timore che gli uomini incutono perché essi possono uccidere il corpo. 
 
Per il testimone di Cristo il suo corpo diviene il luogo dove visibilmente il Cristo viene glorificato con la testimonianza fino alla morte, come dice l’apostolo: Nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia (Fil 1,20). 
 
Il Cristo riempie talmente l’essere fisico e spirituale del suo martire che questi è pieno del suo timore e non teme pertanto i suoi avversari. Egli teme il Cristo come suo Signore che ha il potere di far vivere e far morire (cfr. Dt 32,39), che conduce giù alle porte degli inferi e fa risalire (Sap 16,13) ed è perciò terribile cadere nelle sue mani del Dio vivente (Eb 10,31). Questo timore del suo Signore, unito all’amore per lui «sino alla fine», lo rafforza nel consegnare se stesso agli uomini che lo vogliono uccidere; dice infatti: «Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo» (2 Mac 7,11).
 
Ben poco valgono due passeri che sono venduti per un soldo. Eppure anche di essi il Padre nostro si prende cura ed esercita Lui solo il potere di morte, come è detto nel salmo: Se nascondi il tuo volto vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano alla loro polvere (103,29).
 
Più volte ricorre questa espressione per indicare incolumità e protezione (cfr. 1 Sm 14,45; 2 Sm 14,11; At 27,34). Qui e in Lc 21,18 non significa che il Signore libera dalla morte e dalle precedenti sofferenze i suoi testimoni, ma che, nel consegnarli alla suprema testimonianza, li custodisce nell’ora del sacrificio salvando la loro anima, soffio vitale da Lui donato, e il corpo per il giorno della risurrezione.
 
Come in 6,26 gli uccelli del cielo sono segno della provvidenza del Padre, così qui essi sono segno della custodia della vita degli annunciatori dell’Evangelo. Se il Padre si prende cura dei passeri, quanto più degli apostoli e dei discepoli del suo Figlio, testimoni dell’Evangelo. Nella loro immolazione, anche se agli occhi degli uomini sembrano carne da macello, invece preziosa è agli occhi del Signore la morte dei suoi fedeli (Sal 115,15).
 
«Eppure nemmeno uno di essi [passeri] cadrà a terra senza il volere del Padre vostro» (v. 29b). Letto così, questo versetto sembra dire che è volere di Dio che un passero muoia. Fuori di metafora, stando al testo, saremmo autorizzati a pensare che è volere di Dio anche la morte di qualcosa o di qualcuno, che è lui a volere ad esempio la morte di un bambino o a provocare – o semplicemente permettere – una malattia in grado di stroncare una vita nella sua pienezza, insomma, il vecchio adagio: «Non cade foglia che Dio non voglia». Ma allora, stando così le cose, non è ancora questo il Dio della paura, dell’angoscia da cui difendersi e in ultima analisi da negare?
 
Ma il Vangelo non dice assolutamente questo. E il proverbio riportato rimane un’autentica idiozia. La traduzione di questo versetto nel testo originale, letteralmente, suona così: «Uno [dei passeri] da essi non cadrà, senza il Padre di voi». Qui non parla di ’volontà’ del Padre, ma semplicemente che un passero non cadrà a terra senza Dio, ossia lontano da lui, senza che lui ne sia coinvolto, partecipe.
 
Perciò è la conclusione di quanto precede riguardo alla testimonianza resa a lui di fronte a coloro che li vogliono uccidere.  Mi riconoscerà, i discepoli, condotti in tribunale e invitati a dichiararsi per Cristo pena la morte, lo fanno sottolineando con questa confessione, il loro rapporto assoluto e vincolante con Gesù che nulla sulla terra può spezzare, se non la loro volontà. 
 
Davanti agli uomini, gli uomini è un termine che qui indica l’incomprensione del mistero di Cristo come è detto in 16,3: «Chi dicono gli uomini essere il Figlio dell’uomo?». Di fronte a loro avviene la rivelazione di quello che Gesù ha detto ai discepoli nell’orecchio. Corrisponde ai vv. 17-18. 
 
Anch’io lo riconoscerò, il Cristo gli darà la sua testimonianza favorevole nel momento del giudizio definitivo, come lui stesso dice: davanti al Padre mio che è nei cieli, davanti alla corte celeste come è detto in Dan 7,9-14. Lo stesso è detto in Ap 3,5.
 
È il contrario del precedente. Chi lo rinnegherà dichiarando di non conoscerlo e non si pentirà come invece ha fatto Pietro, Gesù dichiarerà di non conoscerlo - come dice in 7,23 - nell’assemblea celeste del giudizio.
 
Nascosto e occulto. È la rivelazione di Dio che è destinata a essere velata. Bisognava leggere dal v. 16 - La Parola viene fuori e coinvolge. È la Legge intima della Parola che trabocca dal segreto e si dilata in tutto l’universo come avviene del discorso dell’Ultima Cena.
 
Gesù ci racconta, ancora una volta, il vero volto di Dio: è il Padre! Non un Dio della paura, ma la passione amorosa di cui dobbiamo e possiamo fidarci. Troppo spesso – ieri come oggi – è stato dipinto e predicato il Dio tremendo nella sua maestà, giudice inflessibile e castigatore. Il Vangelo, attraverso l’immagine dei passeri, ci rassicura: possiamo non avere paura di Dio, perché lui, che si prende cura anche del più piccolo passero, a maggior ragione si prende cura di ciascuno di noi, suoi figli.
 
Il nostro Dio, ci insegna Gesù, non può fare nulla contro la morte, la sofferenza, la violenza, la malattia, che sono frutto del peccato, della libera volontà dell’uomo. Il mondo, con tutto ciò che gli è proprio, va per la sua strada. Abbiamo bisogno di riconciliarci con il Dio di Gesù Cristo, che è un Dio che si fa debole e impotente nei riguardi delle libere scelte dei suoi figli e delle conseguenze sulle cose del mondo. 
 
Semplicemente perché lui è l’amore ed è onnipotente solo nell’amore. E l’amore non si sostituisce mai all’uomo, non lo scavalca. L’amore non preserva dal male, ma sta dalla parte dell’amato in quel male. Dio non ci salva dalla sofferenza, ma nella sofferenza; non ci toglie dalla croce ma vi sale con noi per starci accanto. Il nostro Dio è il Dio-con-noi.
Non placa le tempeste, dona energia per continuare a remare dentro qualsiasi tempesta. E noi proseguiamo nella vita per il miracolo di una speranza che non si arrende, di cuori che non disarmano. Solo di un Dio così possiamo non avere più paura.

COMMENTO DEI PADRI
“Et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”. “E inquieto è il nostro cuore fino a quando non riposa in te”. È una inquietudine esistenziale, una ricerca “in sé e di sé”, stimolata, quasi provocata, da Dio stesso perché la creatura, scoprendo faticosamente in sé l’immagine del suo Creatore, possa a Lui ricongiungersi e in Lui requiescat. (riposare). L’uomo saprà trovare anche in se stesso, pur se provocate dalla Grazia, le ragioni, prima inconsapevoli, di una ricerca voluta, sì, da Dio, ma nella quale egli ha un ruolo, quello di toccare con mano il suo dolore e quello dei suoi simili, un “male di vivere” ante litteram, riconoscendovi l’intervento divino e la presenza di un Amore che attrae e perdona.
(Sant’Agostino – Confessioni, I)

 




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