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Lectio divina della II Domenica di Pasqua - Anno A

Inserita il: 16/04/2020

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Gv 20,19-31
“La sera di quel giorno, il primo della settimana, 
venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”

19La sera di quel giorno, il primo della settimana, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”. 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». 24Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». 26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». 28Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».30Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. 

CONTESTO E TESTO
Nella seconda domenica di Pasqua siamo chiamati ancora a contemplare e gustare la Risurrezione del Signore. Nel brano del Vangelo, l’evangelista Giovanni ci racconta la prima apparizione di Cristo Risorto ai discepoli chiusi nel cenacolo, mentre è assente Tommaso, e la successiva apparizione in cui Gesù invita l’incredulo Tommaso a mettere il suo dito nei segni della passione. Anche noi siamo chiamati a riconoscere il Signore Risorto in mezzo a noi, con l’atto di fede di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio”.

APPROFONDIMENTO DEL TESTO
L’evangelista ci narra quanto accadde la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato. Le porte erano chiuse per il timore dei giudei. Nonostante le assicurazioni di Gesù e l’annuncio dato dal discepolo da Lui amato e da Maria di Magdala, i discepoli se ne stanno a porte chiuse perché hanno timore dei giudei. Viene Gesù senza aprire le porte e stando in mezzo a loro dice: «Pace a voi!». Egli viene portando la pace. 
 
La pace, come se stesso, in cui è pienezza di ogni benedizione divina, riempie questo spazio, comincia a dissipare la paura e apre i discepoli. Con il primo saluto di pace Gesù mostra il suo corpo glorioso e risorto, corpo non immateriale ma fisico sebbene non soggetto alle leggi dello spazio e del tempo, entra infatti a porte chiuse. Dalla pace e dalla sua presenza scaturisce la gioia. Dopo aver dato loro la pace, Gesù mostrò le mani e il fianco. Egli fa loro vedere il foro dei chiodi e la ferita del costato. Gesù è per sempre il Crocifisso; per sempre la sua croce è impressa nella sua carne e per sempre rimane impressa nella mente e nel cuore dei discepoli.
 
Quanto i discepoli ora vedono – e anche Tommaso vorrà vedere – costituisce l’essenza dell’annuncio evangelico: Gesù Cristo e questi crocifisso (1Cor 2,2). Essi contemplano il Crocifisso nella gloria della sua risurrezione per cui: i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù lo aveva preannunciato: “Anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. In quel giorno non mi domanderete più nulla” (cfr. 16,22-23).
 
La pace, che il Signore ha loro dato, ha sanato le ferite della colpa di essere fuggiti lasciandolo solo e ora vedono quelle ferite nel loro Signore che, anziché dar loro amarezza, infondono gioia. I discepoli non avvertono nel loro Maestro nessun rimprovero ma solo il grande amore con cui li ama e questo li fa gioire. Sulle labbra di Colui, che è mite e umile di cuore, non c’è nessuna parola amara ma solo la piena realizzazione delle sue promesse. I discepoli gioiscono perché sono da Lui attratti e strappati con forza dal loro sepolcro di paura e di tristezza. Gesù li attrae a sé e li fa uscire dalla voragine della morte, che tende a riassorbire la nostra esistenza attraverso la forza seduttiva del peccato. 

Gesù dona loro per la seconda volta la pace. Prima Egli aveva dato loro la pace per sanare le loro ferite, ora Gesù la dona perché i discepoli a loro volta la donino agli altri. Essi possono donarla perché da Lui inviati. Unica è la missione dei discepoli e quella del Cristo. Questa consiste nella presenza del Signore attraverso i suoi discepoli (cfr. Mt 25,40: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»). 
 
Stabilendo un’esatta uguaglianza tra il suo invio dal Padre e quello dei discepoli da parte sua, Gesù esprime l’unità inscindibile tra il Padre, se stesso e i suoi discepoli. Sorgente della missione di Gesù è il Padre, sorgente della missione dei discepoli è il Figlio. Il rapporto con il Padre da parte dei discepoli è sempre mediato da Gesù (cfr. 1Tm 2,5). L’unico, che il Padre manda, è il Figlio e in Lui Egli invia sia lo Spirito che i discepoli. 
 
Infatti Gesù dona lo Spirito Santo ai discepoli perché in loro sia la sua stessa forza. L’unica missione, iniziata in Gesù, continua ora nei suoi discepoli. I suoi discepoli faranno opere maggiori di Lui perché è Gesù che attraverso loro porta a compimento la sua opera (cfr. 14,22: In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre).
 
La pace, che Egli comunica, ha un duplice effetto: li risana e li rende capaci di annunciare l’evangelo della pace. Questa è l’opera che Gesù compie nei suoi discepoli anche oggi. Vi è questa duplice operazione, che la pace di Gesù opera in noi. Egli vuole che l’annuncio sia effetto della salvezza e che scaturisca come sorgente pura dello Spirito Santo da persone risanate. Nessuno può andare se Gesù non lo manda.

Soffiò, è il verbo usato nella creazione dell’uomo. Questo soffio del Signore investe sì i discepoli ma non solo. Come morendo Egli ha dato lo Spirito effondendolo in tutta la creazione (cfr. 19,30), così ora, risorto, Gesù soffia e il suo soffio si effonde su tutta l’umanità e su tutta la creazione. È l’universalità del dono, che, pur passando per i discepoli, tuttavia non si ferma a loro, ma si estende a tutti e si effonde benefico su tutta la creazione eliminando il soffio della morte e il principio di essa, che è il peccato. 
 
Il dono dello Spirito Santo è l’inizio della nuova creazione. Questa si manifesta con la remissione dei peccati, nei quali si esprime il potere della morte. Le parole del Signore, che sono Spirito e vita (cfr. 6,63), distruggono il potere della morte e del peccato. Anche in Lc, quando il Signore fa una sintesi del messaggio della Scrittura a suo riguardo, presenta la conversione per la remissione dei peccati (24,47) come il frutto della sua risurrezione. 
 
Tra lo Spirito Santo e i discepoli si crea un vincolo così forte che la remissione dei peccati passa attraverso di loro. Questa quindi si manifesta attraverso la comunità dei discepoli e dona a chi la riceve la pace del Cristo. La realtà del peccato è così incessantemente distrutta nella comunione ecclesiale. 
 
Gesù dà pure il potere opposto, quello di ritenere i peccati. Essi quindi restano in colui che li ha compiuti. L’Evangelo non precisa quando questo avvenga. Stando alla prima lettera di Giovanni uno degli ostacoli maggiori è l’odio verso il fratello che rende omicidi come Caino. Il peccato quindi non è racchiuso solo nella sfera personale, ma implica sempre una relazione e come tale è solo attraverso una relazione che può essere rimesso. Il luogo pertanto dove lo Spirito rimette o trattiene i peccati è la comunità dei discepoli di Gesù.
 
L’attenzione si fissa ora su Tommaso, il discepolo assente. Come in 11,16 egli è chiamato Didimo, che è la traduzione greca del nome aramaico Tommaso. Egli è provvidenzialmente assente perché allo sguardo del lettore si apra l’orizzonte della fede di coloro che pur non avendo visto crederanno (v. 29). A differenza del discepolo, che Gesù ama, Tommaso condiziona la sua fede al fatto di vedere. I discepoli con insistenza e con voce unanime dicono a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore!». La gioia suscitata dal Signore nei discepoli è incontenibile ed essi affermano ciò che a Tommaso appare assurdo. Tommaso contrappone alla loro gioia la concretezza delle prove: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». I discepoli hanno visto le mani e il costato, Tommaso vuole non solo vedere ma anche toccare soprattutto quei fori alle mani e quella ferita al costato che danno testimonianza che è veramente il corpo di Gesù crocifisso. 
 
Tommaso vuole fondare la sua fede sulla sua esperienza e non sulla testimonianza degli altri discepoli. Egli vuole addirittura fare un’esperienza più forte della loro. Egli non vuole sottomettersi alla loro testimonianza e quindi cade nell’incredulità. Quando vedrà il Signore Tommaso sarà guarito. Tuttavia, essendo apostolo, Tommaso ha potuto vedere il Signore perché ne divenisse testimone della risurrezione. Gesù non esaudisce Tommaso perché questo era necessario per credere (altrimenti Egli dovrebbe apparire a ogni uomo) ma per il suo ruolo nella Chiesa. La sua ostinazione c’insegna l’umiltà dell’attesa. Ora noi crediamo al Signore pur senza averlo visto e in Lui gioiamo di una gioia indicibile e gloriosa (1Pt 1,8).

Il Signore lascia passare otto giorni in modo che ritorni il primo giorno dopo il sabato, perché sia il memoriale della sua risurrezione. In questo giorno, l’ottavo e il primo, i discepoli sono di nuovo dentro, in casa. Questo è il giorno in cui si radunano di nuovo insieme e nel quale si rende presente il Signore. In questo giorno Egli compie gli stessi gesti e dà lo stesso saluto della domenica di risurrezione. Il tempo è ricapitolato nella Pasqua e ha in essa la sua pienezza, perché questo è l’unico giorno, quello fatto dal Signore (Sal 118,24).
 
La natura di questo giorno si rivela sia nel primo giorno della settimana, la Domenica, come pure nell’Eucaristia dove il Signore compie gli stessi segni salvifici della sua Pasqua fino alla sua venuta. Sebbene dopo non sia visibile fisicamente, il Signore sta in mezzo ai suoi e dona loro la pace. Più i discepoli recepiscono la presenza del Signore nei divini misteri più essi sono penetrati dalla pace di Gesù e la possono dare gli uni gli altri.

Il Signore sana l’incredulità del discepolo: invitandolo a toccare le sue ferite gli mostra che è veramente Lui nel suo vero corpo e nel rispondere alle sue parole gli si rivela come Colui che tutto conosce e al quale nulla sfugge dei suoi discepoli. L’incredulità, che noi condividiamo con Tommaso, è guarita dalla stessa fede in Gesù. L’apostolo guarisce al contatto fisico con il Signore, noi attraverso la testimonianza apostolica. L’esperienza di Lui anche per noi, come per Tommaso, si conclude con l’invito del Signore: «Non essere incredulo ma credente!». L’essere insieme come discepoli il primo giorno della settimana, accogliere il Cristo che sta in mezzo a noi nella celebrazione dei divini misteri ed entrare in comunione con Lui, tutto questo ci porta a distruggere in noi ogni forma d’incredulità per giungere al grido stupito della fede.
 
Il grido, che il credente eleva a Dio (cfr. Sal 35,23) invocando la sua salvezza perché Egli è il suo Signore e il suo Dio, Tommaso ora lo rivolge a Gesù. Nello stupore di conoscere in Gesù risorto il suo Signore e il suo Dio, il Dio quindi dei suoi padri, che ha accompagnato il cammino del suo popolo, Tommaso conclude l’itinerario della sua fede e dei discepoli.
 
Esso è cominciato al mattino con la fede del discepolo amato da Gesù dentro al sepolcro vuoto, è passato attraverso il grido della Maddalena (Rabbonì) e giunge alla sua espressione più alta sulle labbra di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». In questo modo è rivelato a noi chi è Gesù e quale rapporto Egli abbia con noi. Egli sta in rapporto con noi come il nostro unico Signore e il nostro unico Dio. La fede d’Israele sull’unicità di Dio converge verso Gesù come l’unico Signore e l’unico Dio con il quale rapportarci.
 
Il rapporto con il Padre, l’unico Dio, non può essere scisso dal rapporto con il Figlio, con Gesù. Nessuno può dichiarare che Dio è l’unico se non dichiarandolo in Gesù. Il Dio d’Israele è Gesù e in Lui noi conosciamo il Padre come uno con il Figlio. Tommaso giunge in questo modo al compimento della sua fede nell’unico Dio tante volte professata. Toccando le ferite alle mani e al costato di Gesù, l’apostolo esperimenta in Gesù il suo unico Dio e quindi il suo unico Signore.
 
Israele non ha mai conosciuto direttamente il Padre ma nella rivelazione ha sempre udito la voce del Figlio, come più volte Gesù stesso ha proclamato nell’evangelo (8,58: «In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono»; 5,46: «Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me; perché di me egli ha scritto»). 
 
Tommaso ha veduto Gesù risorto e ha creduto. Infatti egli non ha solo constatato che è Gesù il crocifisso, il risorto che sta in mezzo a loro, ma ha conosciuto chi è Gesù. La carne del Signore è stata veicolo della sua fede. Toccando i segni della croce, Tommaso è stato attratto dagli abissi della divinità e ha quindi conosciuto il suo Signore e il suo Dio.
 
L’incontro con Gesù risorto è andato oltre le sue attese, lo ha coinvolto e lo ha trascinato dentro quel mistero, che era rimasto celato durante la vita terrena di Gesù. Le ferite aperte nella carne di Gesù sono la finestra aperta sulla sua divinità. Tommaso ha visto, ha toccato e ha contemplato e quindi non ha potuto trattenere il grido della sua fede e del suo rapporto con Gesù.
 
A questa condizione di privilegiato, Gesù contrappone la beatitudine di quelli che crederanno senza aver visto in virtù della parola apostolica. Essi crederanno in virtù della Parola e dei segni sacramentali: l’acqua, il pane e il vino la cui virtù sanante e salvatrice è stata espressa nei segni che Gesù ha operato e che sono stati raccontati lungo il santo evangelo. I discepoli, che crederanno senza aver visto Gesù, troveranno la loro gioia nella Parola e nei segni perché esperimenteranno in essi la presenza del Signore e credendo in Lui gioiranno di una gioia indicibile e gloriosa (1Pt 1,8).
 
La presenza di Gesù nella Parola e nei segni non è sostitutiva della sua presenza fisica ma è il modo come ora Egli è presente tra noi. La presenza è la stessa, il modo è diverso, diverso è quindi il modo di credere. Allora i discepoli hanno creduto vedendo l’uomo Cristo Gesù, ora noi crediamo ascoltando la proclamazione evangelica e aderendo con fede ai segni sacramentali, resi presenti dalla Chiesa.
 
Posta alla fine del quarto vangelo l’affermazione di Gesù: beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!  è come il sigillo del libro stesso. Infatti saranno beati quanti, percorrendo l’itinerario che l’evangelo secondo Giovanni fa compiere, giungeranno alla stessa fede di Tommaso che ha visto e toccato Gesù risorto. È quanto dice nella conclusione che segue.

Gesù fece molti altri segni in presenza dei suoi discepoli. Con questi Egli rivelò di essere il Verbo fatto carne pieno di grazia e di verità (1,14) per cui dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia (1,16). Da questa economia sovrabbondante l’evangelista ha scelto quei segni che caratterizzano l’iniziazione alla conoscenza di Gesù e quindi tradotti nei segni sacramentali essi sono in grado di comunicare la sua grazia ai credenti.
 
Come appunto Gesù ha dato da mangiare a cinquemila uomini con i cinque pani e i due pesci così ora Egli sfama la moltitudine innumerevole dei discepoli con il sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Inoltre, come la sua voce richiamò Lazzaro dal sepolcro, ora la voce evangelica risuona per risuscitare dalla morte coloro che sono avvolti dalle tenebre del peccato.
 
In tal modo Gesù continua a dispensare in modo sovrabbondante la sua grazia risanando l’uomo dalla radice del suo male, che è il peccato che inabita nelle sue membra, per strapparlo dal potere della morte e dargli in modo pieno e sovrabbondante quella vita, che Egli possiede in eterno con il Padre.

L’evangelista ha scelto i segni narrati e li ha disposti secondo l’ordine storico e d’iniziazione perché ogni discepolo, attraverso l’Evangelo, giunga alla piena professione di fede in Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio. Questo infatti è l’oggetto proprio della fede. «La fede è il ritenere nel cuore e confessare con le labbra che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e che Dio l’ha risuscitato dai morti (Rm 10,9)» 

 




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