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Lectio divina della XXX Domenica del Tempo ordinario - Anno C

Inserita il: 25/10/2019

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Luca 18, 9-14
“Il pubblicano, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare 
gli occhi al cielo e si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore”.

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

CONTESTO E TESTO
Il tema della liturgia della XXX domenica è ancora la preghiera, ma espressa come richiesta di perdono, come riconoscimento del proprio bisogno di salvezza: è la preghiera dei poveri in spirito, che hanno conosciuto il volto di Dio, come loro Salvatore. È la preghiera di coloro che hanno chiesto insistentemente il dono del “penthos”, cioè della compunzione del cuore, cioè il cuore ferito dall’amore del Signore per noi. 
 
Nella prima lettura tratta dal libro del Siràcide ci viene descritta l’accoglienza che Dio riserva alla preghiera del povero e dell’umile. È una preghiera di supplica di chi si riconosce bisognoso e si rivolge a Dio con totale fiducia. È la preghiera che riconosce la misericordia di Dio e la invoca proprio nella situazione penosa e difficile e si manifesta nell’abbandono confidente a Colui che certamente esaudirà. Il Salmo 33, nel versetto responsoriale, ci ricorda che: “Il povero grida e il Signore lo ascolta”. Perché il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, Egli salva gli spiriti affranti. Ed è su questo aspetto della compunzione che vogliamo indirizzare la nostra meditazione. 
 
Anche nella seconda lettura, in cui continuiamo ad ascoltare l’esperienza spirituale che l’apostolo Paolo narra al discepolo Timoteo, troviamo la testimonianza dell’apostolo che confessa di essere stato un peccatore e un persecutore, ma il Signore lo ha strappato dalla morte e lo ha convertito a Lui. Ormai alla fine della sua corsa in questo mondo l’Apostolo riconosce che il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza, e che questa azione di Cristo lo accompagnerà sino all’arrivo nel suo Regno. “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nel cieli, nel suo regno”. 

LA PREGHIERA DELL’UMILE PENETRA I CIELI
E siamo ricondotti al Vangelo: Luca ci presenta due persone che pregano, ma solo una di essi ha il cuore spezzato: il pubblicano. L’altro usa la preghiera per autoglorificarsi davanti a Dio, mentre sulla bocca del pubblicano sentiamo risuonare l’invocazione essenziale: “Abbi pietà di me, peccatore!”. In questa parabola Gesù non vuole incoraggiare i peccatori a continuare a peccare, ma li invita a rivolgersi a Lui per avere il perdono, prendendo le distanze dalla presunzione del fariseo. Infatti al v. 1 dichiara la sua intenzione: “Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Anche la posizione fisica dei due oranti dice chiaramente quello che abita la loro mente e il loro cuore. Uno è in piedi e l’altro è prostrato. La preghiera del fariseo apparentemente è un ringraziamento, ma di fatto è un confronto con l’altro, disprezzato perché pubblicano. Mentre il pubblicano, nella consapevolezza di non aver nulla di cui vantarsi, invoca la misericordia di Dio perché lo perdoni e lo converta a sé. Il primo considera il proprio cuore come sorgente della propria esaltazione, il secondo pone il suo cuore com’è, sanguinante, davanti a Dio. Per questo Gesù conclude al v. 14: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato".
 
La preghiera del fariseo comincia con un ringraziamento che non è un vero ringraziamento ma un’autoesaltazione. L’oggetto della gratitudine è se stesso e non la gloria di Dio: “Noi ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa” cantiamo nell’Inno di gloria, durante la Messa. Il ringraziamento riconosce l’opera di Dio, mentre il fariseo perverte il senso della preghiera di ringraziamento autoglorificandosi e esaltando le proprie qualità e disprezzando gli altri, che per lui sono tutti ladri, ingiusti, adulteri. E specialmente prende le distanze dal pubblicano che è rimasto in fondo al tempio.

IL DONO DELLA COMPUNZIONE DEL CUORE
Il pubblicano riconosce tutta l’ambiguità della sua vita e chiede la grazia della conversione e del perdono. Egli fermatosi a distanza, accetta di essere umiliato davanti a Dio dalle parole del fariseo, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo sentendosi indegno della comunione con Dio ed è rivolto a quella polvere dalla quale fu tratto; ma si batteva il petto «o più precisamente, si batteva il cuore come sede del peccato». Infatti nel Midrash Qoèlet 7,2, l’espressione battersi il petto corrisponde a battersi il cuore e così commenta: «Perché battersi il petto? per dire che tutto, cioè i peccati e le colpe e quindi ogni tribolazione, proviene di lì». A questa interpretazione fa eco quella di Agostino: «Battersi il petto non è altro che disapprovare ciò che è nascosto nel petto e riconoscere il peccato nascosto con un gesto manifesto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore!».
 
Il pubblicano compie tutti i gesti che indicano la presenza di Dio. Egli è davanti a Dio, che è santo e lui è impuro, per questo sta lontano. Dio si rivela e lui abbassa gli occhi come fanno Mosè ed Elia che si coprono il volto. Battendosi il petto, il pubblicano scopre la misericordia di Dio nell’abisso del suo peccato, come accade alle folle che alla morte di Gesù si battono il petto perché nella sua morte hanno visto contemporaneamente il loro peccato e la misericordia infinita di Dio che perdona (cfr. 23,48). 
 
«Il pubblicano se ne stava invece lontano; ma si avvicinava a Dio. Il suo rimorso lo allontanava, ma la pietà lo avvicinava. Il pubblicano se ne stava lontano; ma il Signore lo aspettava da vicino. Il Signore sta in alto, ma guarda gli umili … Non gli basta di tenersi lontano; neanche alzava gli occhi al cielo. Per essere guardato, non guardava. Non osava alzare gli occhi; il rimorso lo abbassava, la speranza lo sollevava. Senti ancora: Si percuoteva il petto. Voleva espiare il peccato, perciò il Signore lo perdonava: Si percuoteva il petto dicendo: Signore, abbi compassione di me peccatore. Questa è preghiera» (Agostino, Sermone 115, 2). 
 
La preghiera del pubblicano si rifà alla Scrittura e precisamente al Sal 50/51 “Pietà di me, Signore, nella tua grande misericordia. (…) Il mio peccato io lo riconosco (…) ma tu gradisci la sincerità del cuore e nell’intimo mi insegni la sapienza” Per questo Gesù conclude al v. 14: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato»”.
 
Anche nel Magnificat, la preghiera di Maria, la Vergine Madre riconosce tutta la sua vita e vocazione come dono gratuito, perché lei è troppo piccola per il dono ricevuto: “L’anima mia magnifica il Signore, …perché ha guardato alla piccolezza della sua serva…Ha rovesciato i potenti dai troni e ha esaltato gli umili… ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”.

IL PENTHOS È L’INCONTRO CON IL VOLTO DI CRISTO
Nella grande tradizione spirituale dell’oriente cristiano, i santi hanno vissuto questa stessa esperienza di conversione che chiamano il “penthos”. Esso non è il pentimento dei propri peccati per paura del castigo e per una volontà di autoperfezionamento. Il penthos nasce da un cuore ferito dall’amore del Signore, riconosciuto personalmente, nell’incontro con il suo Volto, “Cristo che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20), come testimonia Paolo nella lettera ai Galati. 
 
Gregorio di Nissa scrive: “Il penthos è uno stato di tristezza dell’anima causato dalla privazione di qualcosa di desiderabile, una sola cosa si deve desiderare: la salvezza. Il penthos stessa è la beata afflizione, è il lutto gioioso che porta a lacrime per la salvezza perduta personalmente o da parte di altri”.
 
Una delle espressioni del penthos è la preghiera cosiddetta di Gesù in uso nell’ambiente monastico che in questo modo coltivava il penthos, l’adorazione. Alla mentalità dell’autopunizione o dell’autosalvezza, la preghiera di Gesù orienta il cuore verso Cristo. Le parole: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”, non parlano del peccato come di una realtà astratta, ma di “me peccatore” uomo più concreto nella sua frequente esperienza di fragilità. Riconoscere i peccati è un atteggiamento richiesto a tutti i cristiani. L’interesse non è rivolto all’atto ma allo stato dell’uomo; Teofane il Recluso sottolinea che il sentimento io sono peccatore è più importante di quello io ho peccato.
 
La preghiera di Gesù, significa quindi non solo confessare il peccato ma la salvezza avvenuta nell’Incarnazione del Figlio di Dio, vuol dire riconoscere il vero Dio e la nostra fede. Il Dio che salva non è un Dio astratto, il Dio che salva è il Padre che perdona e ricrea la relazione, è Cristo che prende su di sé il nostro peccato e ci salva dalla morte, è lo Spirito Santo che fa di noi “figli della luce”. Per Simeone il Nuovo teologo è proprio la consapevolezza dell’amore di Dio che fa versare abbondanti lacrime, che non generano tristezza ma, misteriosamente, fanno fiorire la consolazione e la gioia spirituale.

UN MODELLO DI PENTHOS
Prendiamo come modello di “penthos” una santa poco conosciuta tra noi: Santa Maria Egiziaca, ma molto venerata nella Chiesa d’oriente. In Italia, a Napoli c’è una Chiesa a lei dedicata, che testimonia l’influsso dell’oriente nella devozione popolare del Sud Italia.
 
Sappiamo di sicuro che era nata nel IV secolo ad Alessandria d’Egitto e si guadagnava da vivere facendo la prostituta. Fuggita da casa sua a 12 anni sino a 29 anni si mantiene prostituendosi. A 29 anni si imbarca su una nave di pellegrini diretta in Terra Santa. Arrivata a Gerusalemme, volle partecipare alla festa dell’Esaltazione della Croce al Santo Sepolcro. Prima di entrare però fu trattenuta da una forza invisibile mentre una voce dentro di lei diceva: “Tu non sei degna di vedere la Croce di Colui che è morto per te tra dolori inenarrabili”. 
 
Convertitasi al Signore, andò a vivere solitaria nel deserto oltre il Giordano dove restò per 47 anni in preghiera e penitenza. Il monaco Zosimo, che l’aveva visita l’anno presedente per portarle la comunione, l’anno dopo la trova morta, era probabilmente il 430. Secondo la tradizione la sua tomba sarebbe stata scavata da un leone con i suoi artigli. Il pentimento per amore rende il cuore nuovamente puro e gradito a Dio.

 




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