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Lectio divina della XVIII Domenica del Tempo ordinario - Anno C

Inserita il: 01/08/2019

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Lc 12,13-21
“Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia”


 
In quel tempo, 13uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

CONTESTO E TESTO
La liturgia di questa XVIII domenica ci aiuta a portare alla luce quelle domande fondamentali che alle volte emergono in noi, soprattutto nei momenti difficili. Talvolta si presentano anche come tentazioni: Che senso ha vivere? Perché soffrire? Vale la pena impegnarsi per il bene? Vale la pena credere in Dio? Fidarsi della sua Parola? Sono domande che non possiamo evitare e la Parola di Dio che ci è donata in questa domenica ci indica la via da percorrere per rispondervi. La via suggerita è quella della costanza, perseverando nell’abbandono fiducioso al Padre celeste, anche quando il quotidiano sembra dire il contrario.
 
La prima lettura, tratta dal Qoèlet, mettendo subito in chiaro che “tutto è vanità”, ci aiuta a ridimensionare la fiducia che poniamo nelle cose, nelle sicurezze terrene, perché la sapienza che viene da Dio ci dice: “Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo” (Qo 12, 13). Il salmo responsoriale 89 riprende i temi sviluppati nella prima lettura e con il verbo ritornare ci invita alla conversione. 
 
Nella seconda lettura l’apostolo Paolo scrive ai Colossesi che la forza devastatrice della morte non ha l’ultima parola, perché in Gesù Cristo, il Figlio morto e risorto, il Padre ha vinto la morte, frutto del peccato. Noi, mediante il Battesimo, siamo misteriosamente inseriti nella Pasqua di Cristo, che si mostrerà in tutta la sua pienezza e bellezza alla fine della storia: “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria” (v.4). 
Il testo del Vangelo ci racconta dell’incontro con Gesù di una persona anonima della folla che chiede a Gesù di intervenire nella spartizione dei beni con il fratello. Gesù prende lo spunto per ricordare che la nostra vita non dipende dai beni che possediamo, ma dall’accumulare i tesori secondo Dio.

LA VITA NON DIPENDE DAI BENI 
Il minore di due fratelli si lagna che il più vecchio gli rifiuti la sua parte d’eredità. Chiamandolo Maestro quest’uomo riconosce in Lui un insegnamento fatto con autorità. I rabbi (maestri) nella società giudaica del tempo erano gli specialisti adatti a risolvere tali questioni, essi sapevano che gli insegnamenti tradizionali sconsigliavano di dividere i beni della famiglia. Gesù non rifiuta di rispondergli, ma invita l’interlocutore a riflettere su beni più grandi di quelli semplicemente materiali.
 
“O uomo”: chiamandolo con questo appellativo Gesù gli ricorda qual è la nostra condizione e anche il rapporto con Lui. Egli non deve rispondere alle necessità passeggere dell’uomo esercitando l’ufficio di giudice o di mediatore perché il giudizio e la mediazione da Lui compiuti si relazionano alla nostra situazione personale e quindi sono in rapporto alla nostra salvezza e redenzione.
 
Il Signore, nel momento in cui non accetta di essere arbitro in un’eredità terrena legata alle antiche promesse, rivela l’altra eredità, quella spirituale, in quella terra che solo i miti ereditano (cfr. Mt 5,5). La vera eredità è nella mitezza che è frutto dello Spirito (cfr. Gal 5,22) e non nell’avarizia per la quale non si può ereditare il regno di Cristo e di Dio (cfr. Ef 5,5).

L’INGANNO DELLA RICCHEZZA
L’avarizia o cupidigia per la quale l’uomo si arricchisce e custodisce i beni terreni non è la misura della vita. La vita è un dono di Dio che, per essere custodita, non è legata ai beni materiali, ma a quelli spirituali. I beni materiali sono in relazione alla vita ma non stanno alla radice di essa. All’origine della nostra esistenza si colloca Dio, autore della vita stessa: è a Lui che bisogna indirizzare la nostra vita. Ogni ragionamento che esclude Dio nel pensare al futuro della nostra esistenza risulta stolto, come insegna la parabola che Gesù racconta di seguito, una parabola che aiuta a mettere in luce l’inganno delle ricchezze.
 
Il brano del libro del Siracide che troviamo al capitolo 11,18-19, può essere il testo che fa da sfondo alla parabola: “C’è chi è ricco a forza di attenzione e di risparmio; ed ecco la parte della sua ricompensa: mentre dice: «Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni», non sa quanto tempo ancora trascorrerà; lascerà tutto ad altri e morirà”. Questo ricco proprietario di fronte all’abbondante raccolto della sua terra ragiona con se stesso e con la sua anima, ma non con Dio. Egli parte da una constatazione: Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? (17). Interroga la sua cupidigia, mentre il luogo dove riporre i raccolti sono «il seno dei poveri, le case delle vedove, le bocche degli orfani e dei fanciulli» come dirà sant’Ambrogio.
 
La cupidigia lo fa giungere a questa conclusione: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. L’avvertimento di Gesù a tenersi lontano da ogni cupidigia è l’invito ad evitare di essere risucchiati dall’idolatria dell’io. L’io si mette al posto di Dio. Possiamo notare che il possessivo miei esclude la signoria di Dio sulla nostra vita e sui beni da Lui stessi elargiti. Infatti “lo stolto pensa: Dio non c’è”. (Sal 14,1).
 
L’uomo autocentrato è avaro: si rivolge all’anima sua come al suo bene supremo e le dice: Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni, riposati, mangia, bevi e divertiti. La vita (ossia l’anima) è presentata in questo contesto secondo le categorie del giudaismo come proprietà di Dio, che è stata affidata all’uomo per un determinato periodo di tempo e di cui un giorno deve rendere conto a Dio che la chiede di ritorno. Notiamo come le espressioni riposati, mangia, bevi e divertiti abbiano un carattere non solo terreno ma escatologico: è solo il Cristo che dà il vero riposo (cfr. Mt 11,29: troverete ristoro ... ), che ci nutre con il suo Corpo e il suo Sangue e ci comunica la vera gioia. 

LA SAPIENZA DEL VANGELO NEI CONFRONTI DEI BENI È LA COMUNIONE
In che cosa consiste concretamente la stoltezza del ricco? In greco stolto significa senza cervello, imprudente, poco furbo. Questo aggettivo usato da Gesù per indicare quello che agli occhi del mondo può apparire furbo, significa che ciò che per il mondo è furbizia, per il Vangelo è proprio stupidità, stoltezza. 
 
Questo ricco è stolto perché ha creduto di trovare tutta la felicità nei suoi beni, ma Gesù lo avverte, gli mostra la sua stupidità: sei uno Stolto, perché non hai capito la legge fondamentale della vita, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua anima (= vita) con la quale parlavi come se fosse in tuo potere disporne e perdendola perderai pure i tuoi beni: E quello che hai preparato di chi sarà? 
 
La domanda finale esprime tutta l’ironia che scaturisce dal confronto tra la prospettiva mondana e quella di Dio. Questa domanda il protagonista della parabola doveva porsela prima, come fa il Qoèlet che a lungo s’interroga sulla vana fatica di accumulare beni (5,6 - 6,7). Il Signore conclude la parabola con la seguente sentenza:
 
L’accumulare beni per se stessi e quindi non distribuire i propri beni ai poveri (v. 33), si contrappone all’arricchire davanti a Dio. Il possesso, anche se minimo, è sempre un coagulo che impedisce la libertà dello spirito. Questa conclusione sta in esatto parallelo con la conclusione della parte che segue, in cui Gesù dà delle norme ai discepoli sul come comportarsi riguardo ai due beni preziosi che tutti possediamo: l’anima e il corpo. Possiamo dire che “arricchire presso Dio” significa vivere una vita sobria, moderata, all’insegna della condivisione dei propri beni con chi è nel bisogno, proprio perché alla fine della vita dovremo rendere conto a Dio nei confronti dell’atteggiamento che abbiamo assunto con i fratelli incontrati lungo il cammino.
 
Gesù non ci invita a disprezzare i beni della terra, che sono sempre dono di Dio, ma ci mette in guardia contro l’egoismo che ci chiude in noi stessi e ci invita con molta chiarezza ad aprirci alla gioia e alla bellezza della comunione dei beni. I suoi discepoli sono nel mondo proprio per testimoniare questa gioia e questa bellezza. 

UN COMMENTO SAPIENTE
“La singolarità di Gesù consiste nello sguardo «altro» che egli sa gettare sugli eventi quotidiani, nella sua lettura dei sentimenti e dei pensieri profondi che muovono l’agire dell’uomo. Qui svela un rischio presente nel nostro rapporto con i beni: la cupidigia, l’avarizia. Rivolto a quanti lo ascoltano dice: «Guardatevi da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni». È una parola che, nella sua disarmante semplicità e verità, ci mette tutti in questione. In cosa facciamo consistere la nostra vita? Su cosa la fondiamo? Spesso siamo tentati di farla dipendere dall’accumulo di ricchezze, come se queste potessero colmare la nostra sete di senso e di amore. E così ammassiamo beni per noi, senza tenere conto degli altri; anzi, finiamo per privarli di ciò che spetterebbe loro per avere di che vivere, come fa il ricco della parabola verso il povero Lazzaro (cf. Lc 16,19-31). In più, questo comportamento oggi è pure lodato dalla società, che considera tale accumulo non un vizio ma una pubblica virtù”. (Enzo Bianchi).

 




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