Lectio divina Quarta Domenica di Pasqua – anno C
Inserita il: 08/05/2019
1 commentario(i) ...
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”
27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
CONTESTO E TESTO
Il testo evangelico di questa IV domenica di Pasqua ci presenta l’ultima parte del capitolo 10 di Giovanni in cui troviamo la similitudine del buon Pastore, che dà il nome a questa domenica, detta appunto di Gesù buon Pastore. Il brano sottolinea le caratteristiche della pastoralità di Gesù che è tenerezza, cura amorevole, guida sicura verso la pienezza della Vita. Un Pastore che stabilisce una relazione speciale con ciascuna persona a Lui affidata, al punto che si rende riconoscibile anche solo con la sua voce. Riconoscere la voce vuole dire conoscere la forza della sua Parola che illumina e consola, orienta e libera.
Per comprendere meglio il testo evangelico che la liturgia ci propone può essere utile leggere alcuni versetti precedenti:
“22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. 23Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore.
Al versetto 22 Giovanni ci da una annotazione di tipo climatico per introdurre il contesto religioso: è inverno, il tempo in cui si celebra la festa della Dedicazione del tempio, una festa a cui Gesù partecipa venendo dal nord della Palestina: la Galilea. Questa festa, detta in ebraico Hanukkah, ricordava l’anniversario della purificazione e consacrazione dell’altare del tempio di Gerusalemme, avvenuta nell’anno 164 a.C. ad opera di Giuda Maccabeo, dopo la profanazione fatta da Antioco IV Epifane. Durava otto giorni e segnava per Israele la memoria di un riscatto dal dominio pagano e dall’idolatria.
VOI NON CREDETE PERCHÉ NON SIETE MIE PECORE
Durante questa festa alcuni Giudei si accostano a Gesù e gli pongono una domanda sulla sua identità di Messia. Evidentemente si faceva un gran parlare su Gesù e sui segni della sua messianicità, che erano valutati con diverso esito. Apparentemente la domanda è piena di sincero interesse, in realtà è insidiosa e provocatoria. Gesù prende la parola e risponde in due momenti successivi. Il primo momento della sua risposta lo troviamo nel nostro testo, il secondo momento ai vv 32-39. In altre occasioni Gesù non aveva mancato di presentare le sue credenziali di Figlio di Dio e di inviato del Padre. Ma non era stato accolto, perché non sempre il cuore umano è aperto e pronto a riconoscere il dono di Dio. Questi Giudei che non credono, continuano a domandare e indagare probabilmente per giustificare la loro durezza di cuore.
Per questo Gesù risponde: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me». Gesù si appella alle opere compiute nel nome del Padre suo, ma non è stato creduto. Non è scontato ascoltare la Parola e credere, dipende dal modo come si ascolta. C’è un ascolto prevenuto e superficiale che non lascia giungere la Parola sino alle pieghe nascoste del cuore, così come Gesù stesso aveva illustrato nella parabola del seme, riportata da tutti e tre i Vangeli sinottici. (Cf Mt 13. 3-23; Mc 4, 1-20; Lc 8, 4-15). Per accogliere la Parola ci vuole un cuore ascoltante, libero da pregiudizi e paure, come un terreno buono che è stato bonificato e lavorato a fondo e perciò pronto a ricevere il seme e a farlo fruttificare.
La costatazione di Gesù, nei confronti della durezza del cuore, è dolorosa: “Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”. Voi non credete perché non siete mie pecore, cioè non avete accolto la chiamata a stabilire con me una relazione d’amore, che vi ho offerto con totale gratuità. Credere vuol dire fidarsi e senza la fiducia non è possibile vivere la relazionalità, cioè non è possibile vivere una vera relazione interpersonale.
Dopo aver dichiarato ai Giudei che essi non appartengono al suo gregge, Gesù definisce ora chi sono le sue pecore, riprendendo quanto ha già detto nella similitudine del buon Pastore all’inizio del capitolo 10, ai vv 1-16, in cui ha illustrato le note caratteristiche di chi crede. Anzitutto chi gli appartiene ascolta la sua voce. Qui ascoltare significa non semplicemente udire, ma avere quell’attenzione che è propria di colui che è dalla verità (cfr. Gv 18,37). Essere dalla verità porta ad ascoltare la voce del buon Pastore, che è la voce dell’amato di cui parla il Cantico dei Cantici, voce inconfondibile e dolcissima che riempie il cuore di gioia e lo fa trasalire di felicità.
Gesù vuole vincere ogni resistenza dei Giudei che, invece di seguirlo, lo stanno accerchiando. Egli vuole mostrare che è in mezzo a loro come il Pastore in mezzo al popolo del suo pascolo, al gregge della sua mano, come preghiamo nel salmo responsoriale (Sal 99,7). I discepoli odono le sue parole che sono miti e delicate perché Egli non alza la voce non spegne il lucignolo fumigante e non spezza la canna incrinata (Is 42,2-3).
LE MIE PECORE ASCOLTANO LA MIA VOCE, MI SEGUONO E NON ANDRANNO PERDUTE
Gesù descrive le caratteristiche delle pecorelle fedeli che ascoltano, seguono e non andranno perdute. Riconoscono la voce di Gesù, per questo lo seguono senza deviare o andare dietro ad altri pastori che sono solo mercenari. Gesù dona loro la vita e li custodisce per l’eternità. Una certezza che riempie il cuore di gioia. I discepoli di Gesù ricevono incessantemente da Lui la vita. Gesù, nell’atto di conoscere i suoi, dà loro la vita. Egli comunica la sua stessa vita, in forza della quale i suoi non periranno in eterno. È la vita stessa di Dio che pervade il discepolo, si comunica alla sua intelligenza e genera in lui il pensiero di Cristo (cfr. 1Cor 2,16) e, penetrando nella sua volontà, gli fa desiderare le realtà celesti. È quella vita nuova ricevuta nel Battesimo, con il quale abbiamo preso parte alla morte e alla risurrezione di Cristo, e siamo divenuti suoi. “Il Pastore di tutto è disceso, si è abbassato a cercare Adamo, la pecora che si era perduta: sulle sue spalle l’ha portata, alzandola: benedetta sia la sua discesa” (S. Efrem il Siro, Inni sulla Risurrezione 1,2).
Immergendosi sempre più nella vita divina, il discepolo è pervaso da un’intima gioia, e dietro il Pastore, cammina anche nella valle oscura senza temere alcun male (cfr. Salmo 23,4), perché nessuno può strapparlo dalla sua mano, che è la mano del Padre. In questo nessuno vi è soprattutto un riferimento al lupo, l’avversario, che vuole dilaniare il gregge del Signore. Possiamo pensare che la vita eterna, data dal Cristo, si comunichi a noi gradualmente, man mano che ci apriamo all’amore. Chi compie questo itinerario di vita non teme anche nella grande tribolazione (Ap 7,14) perché sa di essere nella mano del Cristo, dalla quale nessuno può strapparlo. Nessuno, infatti, può separare il discepolo dall’amore di Cristo, nemmeno la morte, come testimonia l’apostolo Paolo (cfr. Rom 8,35).
IO E IL PADRE SIAMO UNO
Nel Vangelo di Giovanni troviamo altre volte (Cf Gv 8, 19. 27) questa affermazione di Gesù che descrive la sua figliolanza divina nei termini di una comunione così profonda da essere Uno con il Padre e con lo Spirito. È lo svelamento del mistero Trinitario, di quella comunione d’amore a cui tutti siamo destinati. Nel Figlio vi è quindi la stessa vita e la stessa gloria del Padre perciò unica è la divinità, unica è la gloria e unica è la forza che ci tiene uniti a Lui, per cui nessuno può strapparci dalla mano del Cristo, perché nessuno può strapparci dalla mano del Padre, che, in Cristo, ci ha fatto suoi figli.
Io e il Padre siamo Uno. Nella professione di fede affermiamo quello che Gesù ci ha rivelato: l’Uno esprime la profonda unità della comunione Trinitaria: il Padre e il Figlio nello Spirito sono così profondamente uniti da costituire un solo Dio. Il Padre è a noi rivelato dal Figlio che ci ha resi partecipi di questa comunione d’amore. Mosè aveva contemplato l’Uno dall’esterno e lo aveva consegnato a Israele come sua professione di fede. Nella pienezza del tempo il Figlio Gesù ci rivela il Padre dall’interno e ci apre la via alla conoscenza della Trinità, perché anche noi diveniamo partecipi della stessa comunione divina cioè essere uno come il Padre e il Figlio sono Uno nello Spirito santo. (Gv 17,11). Immersi in questa profonda unione d’amore non possiamo andare perduti, ma anzi siamo costituiti figli nel Figlio. La Trinità esprime la comunione nell’accoglienza dell’alterità.
Leggi i commenti
Ana Acero
10/05/2019 | 22:54
Muchas gracias por ésta ayuda maravillosa, es una gran riqueza espiritual.